domenica 14 marzo 2021

intervista a Blue Bottazzi, un mucchio selvaggio

 


È uscito il nuovo libro di Blue Bottazzi, si intitola un mucchio selvaggio. 

Silver: Quante volte ho letto le parole Jean Genie, o Angie, o Let It Be sulle pagine del libro? 

BB: Il libro è una serie di istantanee, di fotografie, che raccontano lo stesso argomento - la generazione rock - da una quantità di punti di vista. Racconto tante storie, che formano tutte la stessa storia. 

È montato come un film di Tarantino, Pulp Fiction o Jackie Brown, dove ricorrono diverse inquadrature della stessa scena. Racconto di LP, di 45 giri, di copertine dei dischi, di etichette discografiche, di produttori o di testi, sempre dal punto di vista di chi c’era e ascoltava quei dischi. 


Ti piace il cinema?

Al Liceo, volevo diventare regista. Da bambino, ogni domenica pomeriggio andavo al cinema con mio nonno, e sceglievo io il film. Negli anni settanta, ancora mi sono cibato di film e di attori. Probabilmente mi trasportavano dalla nebbiosa provincia della Val Padana a tutto il mondo. Sono rimasto un ragazzo del XX secolo. I miei tre registi preferiti sono Woody Allen, Stanley Kubrick e Hayao Miyazaki. Il primo è il Re della Commedia. Il secondo è un visionario. Il terzo è fantasioso, onirico, apocalittico, è un sogno ad occhi aperti. Mi piace ancora sognare. 


Qual è stato il periodo migliore del rock?

Il mio racconto è fortemente diviso in decenni: i ruggenti anni cinquanta, i magici anni sessanta, i furiosi anni settanta, i felici anni ottanta, i decadenti anni novanta, i disillusi anni zero. Il rock ha avuto tre grandi picchi. Il rock’n’roll, quello delle origini di Elvis, Chuck Berry, Little Richard e Jerry Lee, e gli happy days, i giorni americani prima dei Beatles, quelli raccontati in American Grafiti. Il secondo picco, che è anche l’highlight del XX secolo, è stata la Swinging London e la British Invasion, i giorni in cui Londra era la capitale del mondo, giorni che si sono trasformati nell’era hippie. 

Il terzo picco, sono stati i giorni del punk, a cui sono particolarmente affezionato perché li ho vissuti in prima persona. Potessi avere una macchina del tempo, credo che planerei a Soho, Londra, nel 1964. 


Qual è stata la band migliore di tutte?

Tutte quante. Era una scena, anzi, erano diverse scene, e tutte sono memorabili. Se mi chiedi quali sono le mie dieci band preferite, ti darò una lista diversa ogni volta. Ma se mi chiedi qual è la mia band preferita, probabilmente la risposta sarà sempre Rolling Stones. 


Avrei creduto David Bowie

Bowie, Lou Reed ed Iggy Pop. E Rolling Stones.  


Nel libro ti definisci un motociclista in giacca di pelle

Potessi, girerei il mondo in sella alla mia moto, scrivendo un diario di ogni posto che vedo. Vorrei vivere un mese ovunque, e poi ripartire. Il mondo è tanto grande, e la nostra esperienza così ristretta. 


Quanti anni hai?

Tutti. Ho tutte le età: ho avuto 16 anni, e me lo ricordo. Ne ho avuti 20, ne ho avuti 30, ne ho avuti 40 e anche 50. Ho vissuto tutte le età, non ho sprecato un giorno. Ho vissuto molto, e mi piace ancora, non ne avrò mai abbastanza. Will you still love me, when I'm sixty-four? 

Credo che non si invecchi davvero fino a che si impara, ed io non ho mai smesso di imparare e di essere curioso. Ho sempre assorbito dal mondo circostante e dalle persone. Ogni persona mi ha insegnato qualche cosa, nel bene o nel male. Ricordo con precisione la ragazza che mi ha insegnato che un uomo porta solo calze blu, e persino chi mi ha fatto conoscere il dentifricio che uso o lo shampoo. Ricordo come ho conosciuto ognuno dei musicisti che ascolto. Ricordo tutte le frasi importanti che mi sono state dette. Ho avuto buoni maestri. 


Cos’hai realizzato? 

Una figlia, i miei libri, molto amore, molti ricordi e ancora ho diversi progetti. 


Vivi di rock? 

Mi mantiene il mio alter ego, il dottore. Ma in cambio si prende una parte troppo grande del mio tempo. 


Quanto ti ha influenzato essere un medico?

Mi ha dato da mangiare. A parte questo, sì, credo che essere medico ti metta a disposizione conoscenze ed esperienze che le altre persone non possono né immaginare, né capire. Quando un medico parla con un altro medico, se ne accorge. Non puoi fingere di essere medico, quando parli con un medico. Credo seriamente che i medici dovrebbero essere una casta, come certi santoni orientali. 


Sei nostalgico?

Vivo il presente, ma sono in effetti un ragazzo del XX secolo. Amo l’informatica, amo la tecnologia, ma mi mancano i giorni in cui il fulcro del mondo era la persona, non il denaro, non la finanza. 


Sei coinvolto nella politica?

Non ho mai preso una tessera, non sono mai stato un partigiano o un fan di qualcuno, non ho mai rinunciato ad essere obiettivo, critico. Sono un maschio alfa, non un follower. Credo che l’uomo sia un essere sociale, e che trovi la sua realizzazione nella Società. Suppongo dunque che la strada dovrebbe essere il socialismo, anche se finora non si è mai realizzato. 

Ma no, non sono coinvolto politicamente. La politica mi ha sempre deluso, e oggi ho raggiunto l’età in cui mi sento in diritto di essere finalmente un po’ selfish, “egoista” nel senso buono della parola. Posso fare a meno di seguire da vicino quello che succede nel mondo. 

E poi guarda, sono pacifista convinto, eppure l’anno migliore della mia vita è stato quello passato nell’esercito italiano come ufficiale medico. Sono un essere sociale, ma al tempo stesso difendo la mia indipendenza. 


Credi in Dio?

Credo che l’uomo abbia creato Dio a sua immagine e somiglianza. Per un suo bisogno specifico, di cui ho rispetto. Dunque credo che esista un Dio per ogni uomo. Personalmente credo di avere un angelo custode, non mi azzarderei mai a disturbare il CEO in persona. E credo in Leonard Cohen. 


Come ascolti la musica oggi?

La musica ha viaggiato nel tempo attraverso molteplici forme: concerti e spartiti, 78 giri, 33 giri, CD, fino alla musica liquida. Ne parlo sul libro. Oggi il mezzo è lo streaming, con le sue luci ed ombre. Ma è sempre bello avere in mano la copertina del vinile. All’epoca non avrei pensato che il long playing sarebbe diventato una sorta di simbolo della nostra generazione. Personalmente, oltre che di musica sono un appassionato di tecnologia: sono stato fra i primi ad abbracciare la rivoluzione del computer personale, avevo un Macintosh già dal 1986. Il che significa che quando si è presentato il CD, l’ho fatto subito mio, cercando di convertire la mia discoteca dal vinile al nuovo formato digitale. Scambiavo gli LP con i CD, purtroppo senza neanche farci un guadagno, perché alla fine una quantità di dischi non mi sono stati neanche pagati. Oggi, l’album, con la sua copertina dal profumo inconfondibile, è un’icona, un feticcio, un frammento di opera d’arte. Ogni volta che cerco un album e mi accorgo di non possederlo più, ammetto di avvertire un dispiacere. Ho venduto tutti gli album originali di Warren Zevon e di Patti Smith, e infiniti altri. Ho sbagliato, oggi li vado a cercare fra gli usati. Il CD non ha nulla di superiore allo streaming, l’LP sì. Non la qualità musicale, ma quella romantica. Oggi ascolto tutta la musica su Apple Music, tranne quella che non c’è e che perciò rischia di essere dimenticata (quello che non è sul web va incontro ad una dannato memoriae, non è mai esistito). Però tenere in mano una copertina originale (non una ristampa), è come sfogliare un libro. 


Quante copie venderà questo libro?

Una volta una ragazza mi ha definito uno scrittore di nicchia. Io mi definisco un cronista musicale. La gente oggi non legge, e non legge più di musica. I miei lettori sono quelli che mi seguivano sul Mucchio Selvaggio, la rivista. E certo non tutti leggevano i miei pezzi. 

In più non ho una vera casa editrice. Lavoro in autoproduzione, perché ho la fissa di non voler perdere i diritti d’autore su quello che scrivo. Si trattasse di pubblicare per un editore grande, un Feltrinelli o un Minimum Fax, avrebbe un senso, ma pubblicare per un piccolo editore significa provare la piccola soddisfazione di trovare una copia del tuo libro sugli scaffali delle librerie per un mese, per poi di perderlo per sempre. 

Mi piace avere il controllo su tutto, anche sulla copertina, sulle modifiche e sul futuro. Così pubblico in print on demand, attraverso Amazon. E distribuisco porta a porta ai pochi negozi degli amici. Il libro resta sempre disponibile, anche come eBook, e resta sempre mio. Chi lo vuole se lo fa recapitare per posta. 

Insomma, la risposta alla domanda è: non molto. Ho calcolato che per viverci, dovrei vendere 30.000 copie in un anno. Diciamo che, di regola, me ne mancano 29.000 per arrivarci.  


Che farai ora?

Ogni volta che scrivo un libro, mi ronzano già per la testa le parole di quello successivo. Scrivo con l’impazienza di finirlo, perché uno nuovo spinge per essere scritto. 

Non scrivo un libro per far numero, ma perché ho una cosa che devo dire. È come se volessi lasciarla detta prima di essere cancellato. Si scrive per essere trovati, lo disse Calvino? Io scrivo per lasciar detto. Come il replicante nella scena finale di Blade Runner, che soffre all’idea che tutti i suoi ricordi andranno persi nella pioggia. Scrivo per testimoniare. 

Un mucchio selvaggio è una testimonianza forte per me. Come lo fu Long Playing, una storia del rock, che racconta come andarono le cose, e non come le leggo oggi scritte da chi non c’era. 

Balle: quello che scrivono non è vero! 

Ora ho in mente una cosa un po’ narrativa, conosco il titolo, è Blue Motel. Non so come sarà quando sarà scritto, immagino non un romanzo, né un rockumentary. Non mi pongo il problema del “genere”, sono cose che devo raccontare, ma quando poi batto le dita sulla tastiera, le parole escono in modo autonomo. I capitolo, i libri, sono come i figli. Fanno il cazzo che pare loro, ed è il loro bello. 

Vorrei farla finita con i libri sul rock, perché il rock è finito. Ma so che non ho davvero esaurito quella parte della mia vita. Perché mi piacerebbe ancora scrivere una storia della mia generazione, questa volta non per la mia generazione (quello è stato realizzato con un mucchio selvaggio), ma per i giovani di oggi. Mi piacciono i giovani, la gioventù è bellezza, detesto la vecchiezza ed i vecchi. Racconterei loro di giovani ribelli, da James Dean, Marlon Brando ad Elvis, Chuck Berry, via via fino a Kurt Cobain. Ma temo che i giovani non siano interessati. Immagino che il mio amore per loro non sia ricambiato. 

Ho in mente anche un libro sugli anni settanta (daje! n.d.r.). Vedo già i capitoli, uno per uno, anno per anno. Lo immagino collettivo, andrei ad elemosinare i contributi dei miei amici, Denti, Valenti, Zambo... Già me lo vedo, Zambo, a rispondermi di no, perché è un pigro ed anche un po’ orso. Ma ce la farei. 

Un libro collettivo come quello che sono riuscito a scrivere sull’esperienza di lavorare con i computer Apple negli anni ottanta e novanta (si intitola Apple Lovers: il futuro non è mai come te lo saresti aspettato). 

Poi c’è la moto, un altro grande argomento. C’è un capitolo sulla moto nel rock in un mucchio selvaggio. Ma ho in mente un intero libro sulla moto. Ho già il titolo. Quando lo dico, gli amici scuotono la testa, mi dicono che è un titolo che sa di copia. Ma non è vero, il titolo è la sua essenza, racconterebbe della strada, del tao, che vuol dire strada. 

Di cose da scrivere straripa il mio computer. È un peccato che il tempo stringa. 

 

mercoledì 22 gennaio 2020

Musica Classica #1 : il Ludovico Van


(Se la musica classica si recensisse come il rock)

Prima della musica rock, la musica esisteva già. No, non parlo della musica matusa. Ok, lo so : il jazz ed il blues. Ma prima della musica afroamericana? Già, la musica classica, quella musica tronfia e noiosa suonata con l’orchestra, i violini (anzi, gli archi), gli ottoni, i timpani, le file di musicisti ed il direttore con la bacchetta in mano. 
E con i suoi generi, o meglio i suoi periodi, perché è durata un sacco la musica classica. Senza tornare al medioevo, semplificando per amore di ordine: barocca nel seicento, classica nel settecento, romantica nell’ottocento. E contemporanea nel novecento, ma lì si vince facile. 
D’accordo, è quella musica pesantissima che ad una certa ora, neanche tanto tardi, mettono su Radio Rai Tre e arrivederci: ti sintonizzi per ascoltare l’audiolibro di Ad Alta Voce, o uno spezzone di Hollywood Party, o Wikiradio, e invece quelli hanno messo un CD di ottanta minuti e sono migrati tutti quanti al bar e chi li sente più? No quella è impossibile. 
Però c’è una musica classica che già suonava rock’n’roll, come il Beethoven ispirato da Chuck Berry, una gran musica, pur soffocata dagli spartiti, dall’accademia e dal conservatorio, che però talvolta ha un suo perché. 
Così, visto che i dischi rock sono finiti, ho pensato bene (dovrei dire: mi è passato nel gulliver) di recensire qualche disco dei vecchi tempi, gli oldies but goodies. I Greatest Hits. 

Il primo disco in programma è del grande Ludovico Van (obbligatorio chiamarlo così, voi sapete da quando). Un bel disco enorme - anche se qualche taglio glielo si può dare. Il numero uno dei greatest hits. Si intitola la IX Sinfonia, perché è stata preceduta dal altre otto, ma soprattutto altre tre: la terza, la quinta e la sesta. L’eroica, la Pastorale. La IX si potrebbe battezzare la Corale, ma se la chiamate così non vi capisce nessuno. 
Siamo nel 1824, ergo è musica romantica. 
Ben inteso, iL Ludovico Van ha inciso anche dei 45 giri, tipo Fur Elise. Anche dalla IX hanno estratto un 45 giri di successo: Inno alla Gioia (sul lato B, il secondo movimento, Warner Bros 1970). 
Invece che in due facciate, il disco è diviso in quattro movimenti. Il primo però lo si può saltare senza rimorsi. È definito Allegro, ma sembra un pezzo funebre. 
È sul secondo che l’anima comincia a galleggiare, a gioire, a godere. Subito, dal primo attacco dei violini, da quello che non so se è un crescendo, o solo una melodia molto serrata, un ritmo dispari, è una musica magica.  
Ne ha fatta una bella cover Walter Carlos - non so se in realtà fosse lui, perché non è suonata per sintetizzatore, o almeno non sembra, ma l’orchestra è passata in un effetto eco che la fa rimbombare come un pezzo new wave. 
Dopo una parte così straordinaria come il secondo movimento, ci sta bene l’adagio del terzo movimento, per continuare a veleggiare leggeri, ma anche riprendersi dal batticuore. 

Infine: il quarto. Forse il pezzo più bello, luminoso, grandioso, trascinante, splendido, puro mai scritto in musica. Lo chiamano il quarto movimento, ma è un sinfonia per sé, divisa a sua volta in due parti (in realtà quattro). Prima questa grande marcia, che sembra di sollevarsi e volare leggeri verso il nirvana. Poi arriva la voce (il resto della sinfonia è strumentale, come accade si solito). Che diventa un coro. Non ci sono parole per raccontarla. È una salita verso la luce. La prova che non moriremo. Un gran rock’n’roll. Beethoven l’ha scritto come inno alla fratellanza universale. E poi è asceso al cielo, che più in là non si può andare. 

martedì 29 luglio 2014

Tom Petty & the Heartbreakers Hypnotic Eye


Ciao ciao intellettuali sessantenni. Il rock & roll è canzoni, è riff di chitarre, è ballare, è picchiare di batteria. Se non vi piace il suono di Hypnotic Eye, aveste avuto all'epoca l'età di oggi non vi sarebbero piaciuti neanche i Led Zeppelin e i Mott The Hoople. Questo è rock & roll teso e senza compromessi, e chi se ne frega dei distinguo, delle evocazioni e dei confronti.
Un bel disco da suonare in auto, da suonare alla radio e da suonare in concerto. Un disco per chi ha voglia di divertirsi.



domenica 29 dicembre 2013

Bruce Springsteen High Hopes


Ecco il nuovo disco di Bruce Springsteen. Si intitola High Hopes, grandi speranze, ed è il quinto album rock del nuovo millenio, quindi se non contiamo We Shall Overcome (troppo bello per essere vero), Devil & Dust ed i due live. High Hopes il Boss non l'ha registrato per voi, fan segaioli che vi mettete in coda la sera prima dei concerti per entrare nel pit e che cantate tutta Born To Run parola per parola anticipando impercettibilmente il cantante mulinando il braccio nell'aria. Springsteen questo disco l'ha registrato per i ventenni che non prendono ancora il viagra, per entrare nelle classifiche di questo mondo divenuto ingrato, per quelli che comprano Lightning Bolt dei Pearl Jam e che da qualche parte in casa hanno anche Amy Winehouse.
Per cui non rompete le palle con The River, che è stato registrato 33 anni fa, né con il suo drumming elettronico ed i suoni pompati ed il muro del suono. È un bel disco. Oddio, magari senza grandi nuove canzoni, ma quelle è da un pezzo che il Boss le ha finite e chi gliene fa una colpa dovrebbe averne scritte qualche centinaio come lui e poi ne riparliamo. A me High Hopes piace. Soprattutto se suona sullo sfondo, sia pure a volume altissimo, o in auto, magari mentre sto chiacchierando. Mi piace che Springsteen non si pianga addosso come il nonno che andiamo a trovare all'ospizio, mi piace che ci dia dentro in High Hopes, in American Skin (mai suonata meglio), in Down In The Hole che già adoro, in This Is Your Sword, che richiama la sua passione per l'Irlanda e per i Pogues. Mi piace come sussurra con energia in Hunter Of Invisible Game, dove lascia uscire il teppista di Jack Of All Trades (quasi l'unica canzone ascoltabile del precedente Wrecking Ball). Mi piace che rievochi in modo nuovo le canzoni come se fossero delle persone, come fa con The Ghost Of Tom Joad che sposta dallo scaffale acustico di Nebraska a quello elettrico di Murder Incorporated (anche se bisogna ammettere che poteva sforzarsi un po' di più specie con la batteria e che la versione originale era da pelle d'oca, e l'assolo di moog di Roy fa un po' Keith Emerson). Bella The Wall e Dream Baby Dream infine è perfetta, all'altezza di qualsiasi cosa quest'uomo abbia cantato nella sua vita.
Springsteen oggi è questo, non è vintage è solo usato, ma un usato quattro stelle che ci da ancora dentro. È più Clash che Born To Run. Magari gli Stones il rock del duemila lo sapessero suonare così.
Lo tornerei anche a vedere in concerto, se mi promettesse di non fare neanche un solo brano del secolo scorso, neanche nei bis.

(© Silver Surfing - voi sapete chi...)

giudizio: ★★★★ it's only rock'n'roll, ma almeno lo è 

lunedì 9 aprile 2012

Jack Of All Trades



Volevo aspettare di scrivere di Wrecking Ball, il recente nuovo LP di Bruce Springsteen, dopo averlo ascoltato a lungo. Ma siccome non ho mai troppa voglia di ascoltarlo, tanto vale che ne parli ora. La prima cosa che voglio dire è che “è solo rock & roll”: che si parli di folk degli Appalachi o di un singolo a Top Of The Pops, è solo rock & roll. Non sono importanti le intenzioni, sono importanti i risultati. Non è importante quello che il musicista vuole realizzare, ma quello che effettivamente realizza. Una canzoncina può essere molto meglio di una poesia, se è effettivamente così. 

Wrecking Ball è un irato atto di ribellione di Bruce Springsteen - una superstar che potrebbe godersi la vita nel suo Eden personale che invece non può fare a meno di esporsi in prima persona per creare a sessant’anni un disco politico di canzoni di protesta in un momento in cui il sogno del suo Paese sembra definitivamente tradito. Questo è bello, e siamo tutti con lui. Ti abbracciamo Bruce, e abbracciamo il Jack Of All Trades che canti. Però questo disco non è Nebraska e non è Darkness On The Edge Of Town.

“Chi se lo aspettava un altro Darkness?” mi chiedete? 
Io me lo aspettavo, io lo volevo, perché questo è il Boss.

Il problema con Bruce è che sembra aver finito le canzoni. Non è questione di band, di arrangiamenti, di produttori, di suono. È questione di canzoni. Di quelle belle dell’album tre le avevamo già sentite, e le avevamo già sentite perché Bruce le aveva già pubblicate. 
Wrecking Ball è bella, era già uscita su singolo con la band, ed a me piaceva di più che questa con la “big band folk dal suono attuale”. Era la canzone che la E Street Band ha eseguito in occasione dell’addio al Giant Stadium nel New Jersey, lo stadio dei Giants. 
Land Of Hope And Dreams ed American Land sono classici del live show con la E Street Band. Infatti c’è l’ultimo assolo di sax di Clarence “Big Man” Clemons. 
Niente di male che tre canzoni, se sono così buone, abbiano trovato un posto in un album tutto loro (a partire dal titolo). Il problema sono le altre canzoni, che ricordano tanto i miei temini delle scuole medie quando non avevo un accidenti da scrivere e non lesinavo in superlativi nel tentativo di colmare il vuoto. Allo stesso modo gli arrangiamenti (moderni) di WB sono spesso sopra le righe, per truccare canzoni un po’ povere. 
Alcune, come il singolo radiofonico (si fa per dire) We Take Care Of Our Own, proprio non le posso sentire. Alcune, come Rocky Ground (bellino il rap di Michelle Moore) o We Are ALive o Swallowed Up In The Belly Of The Whale sono buone. Specialmente We Are Alive. 

Poi, fra tutte, c’è una canzone, una sola, che è un capolavoro, un seven-eleven, una di quelle canzoni memorabili che scrive il Boss. È un lento di sei minuti, si intitola Jack Of All Trades, che vuol dire il tuttofare, e canta di un american hero, un common man, un blue collar, un uomo che ha perso il lavoro e trova dentro di sé la forza, la dignità, il coraggio di restare in piedi, di confermare il proprio ruolo, di far coraggio alla propria famiglia, alle persone che ama e che credono in lui. Un uomo che cerca il coraggio di tranquillizzare una famiglia con parole come “martellerò i chiodi, sistemerò le pietre, raccoglierò i tuoi raccolti quando saranno cresciuti e maturi, aggiusterò quel motore e lo farò ripartire perché so fare di tutto e tutto andrà per il meglio, so fare di tutto e noi staremo bene…”

Ma aspettate, perché questa non è neppure la metà. Perché questo common man a cui nella canzone va tutta la nostra solidarietà, il nostro amore, questo uomo mite e coraggioso alla fine della canzone alza la testa e dopo aver sottolineato che “il banchiere ingrassa mentre il lavoratore stringe la cinghia, è già successo prima e succederà ancora, scommetteranno la tua vita”, dopo averlo fatto avvisa “se avessi una pistola cercherei i bastardi e gli sparerei a vista, perché so fare di tutto…” 

E un brivido corre lungo la schiena. 




giovedì 22 settembre 2011

1970s


Nei primi anni settanta si respirava un'aria post-hippye, post-figli dei fiori che è difficile raccontare a chi non li ha vissuti. Erano gli anni in cui i giovani occidentali andavano a cercar sé stessi in India, magari compiendo l'intero viaggio su una 2CV. Erano gli anni in cui eravamo consapevoli di essere una generazione "diversa" e in cui eravamo sicuri che il mondo stesse cambiando.
Ci sono alcune copertine (non mi riferisco necessariamente alla musica, ma proprio alle copertine) che nella mia opinione centrano molto quell'atmosfera early seventies - dopo la summer of love delle copertine di Jimi Hendrix e Cream e prima della new wave.





lunedì 18 luglio 2011